DA SOLA NEL BOSCO
Lucia mi chiama mentre sto scrivendo un testo sulle donne iraniane. Le ho davanti a me, una dietro l’altra, immagini su immagini di loro fiere, mentre manifestano con il dito puntato in alto, il fuoco attorno. Subito dopo vedo questi volti splendidi sfigurati. Il primo che incontro è quello di Ghazal Ranjkesh, giovane studentessa colpita da un proiettile mentre protestava. Ha una benda all’occhio, sì perché lì sparano a distanza ravvicinata sugli organi della vista e sulle parti intime. Colpiscono la visione e la creazione. La possibilità di dare alla luce. Il collegamento con la Santa Lucia davanti al giudice di Lorenzo Lotto mi è immediato. Ha il dito puntato in alto e, successivamente verrà rappresentata con gli occhi serviti su un vassoio, oppure, come nell’affascinante tavola di Francesco del Cossa, trasformati in gemme e offerti come un fiore. La donna e i fiori. La donna e il suo legame con le piante e la natura. Lucia mi racconta che sta preparando una mostra a Venezia sulle donne che curavano e guarivano con le erbe e mi chiede se avrei piacere di seguirla. Mi parla di Donne Medicina, di guaritrici, che è proprio quello che sto approfondendo anche io in questo periodo, in particolare nell’Accademia alla quale sono iscritta e che fra l’altro porta il nome di Igea. Mi racconta che uno dei libri che l’ha ispirata per questa mostra è Medichesse. La vocazione femminile alla cura. In copertina c’è proprio lei, Igea, la Dea della salute, raffigurata da Klimt. Non posso certo dirle di no. Riprendo fra le mani un diario che tenevo nei giorni in cui seguivo la residenza di pittura a Nogaredo al Torre, in Friuli, dove Lucia era stata invitata. Definivo il suo spazio, uno spazio germinale che si espandeva a vista d’occhio, fino a ramificarsi come un’edera anche sulle pareti. Lo studio era infatti invaso da libri, cartoni, stampe, agende, colori, carte, enciclopedie; collage e tele che davano vita anche a video. Era un continuo gioco di pieni e vuoti e di continue sperimentazioni e stratificazioni che non escludevano alcun mezzo. E la sua attenzione era incentrata sulla casa, sulle stanze, metafora anche di un paesaggio interiore ancora in fase di esplorazione. Era la sindrome dell’accumulo ad affascinarla maggiormente. La disposofobia. Poi, già durante questo periodo lo sguardo si era volto mano a mano all’esterno, alla natura. Dalle stanze era passata alle montagne e, dopo la carta e il collage, che comunque persistono, sono ora il tessuto e il cucito ad aver avuto la meglio nelle sue installazioni. Cucito che, come la casa, è parte del femminino, di colei che viene chiamata la custode del fuoco sacro che è ben diversa dalla custode del focolare come noi la intendiamo. Per Alessandra Comneno, ricercatrice, praticante di sciamanesimo e pellegrina della coscienza secondo la tradizione Maya-Tolteca, che ha scritto un breve libro che porta proprio questo titolo[1], custodire il fuoco sacro non significa solo avere cura degli altri, quanto custodire la propria vitalità, intesa come energia che alimenta talenti, sogni e potere personale. Lucia nei suoi ultimi lavori e per la mostra in corso si è concentrata proprio su questo. Ha dato voce, inserendo ovviamente anche la sua, a quattro donne che, in epoche diverse, hanno cercato di varcare i confini di una società fortemente patriarcale. Una società dove tutto, — in primis l’espressione e la credibilità delle loro ricerche e parole — veniva messo in discussione o, peggio, non preso nemmeno in considerazione. Nel farlo ha trasformato le carte sulle quali venivano disegnate piante e fiori in grandi teli. Teli che fra l’altro vengono usati per proteggerle dal freddo dell’inverno, adottando ancora una volta una modalità che, seppur diversa, rimanda concettualmente al messaggio degli stendardi, già in precedenza da lei ideati e ripresi da Mary Lowndes. Artista inglese, nonché fondatrice della Lega delle Artiste Suffragette, li descriveva come oggetti che fluttuano nel vento, che sfarfallano nella brezza, che civettano con i loro colori per darti piacere, che si mostrano per metà e per metà nascondono un dispositivo che desidereresti ardentemente svelare. Che non vuoi leggere ma solo venerare. E quale luogo migliore per venerare se non la vetrina? Un luogo di esposizione che soprattutto oggi, nell’epoca del consumo sfrenato, non puoi non vedere. Una vetrina non ti lascia mai indifferente. Lì dentro c’è tutto quello che vorresti e che probabilmente hai già ma non sai di avere. Devi solo imparare ad esporlo meglio. Ad esprimerlo. E chi meglio di Hildegarda von Bingen, Jeanne Baret, Elizabeth Blackwell e Marianne North ce lo può dire? Chi meglio di queste donne ci può dimostrare che la forza sta tutta dentro e basta solo avere il coraggio di portarla fuori? Di esprimerla con tutta la propria forza e dedizione? Ad ognuna di esse, botaniche, viaggiatrici, studiose, artiste in tempi non certo semplici, Lucia dedica un ritratto. Tutte e quattro, come pure i quattro teli realizzati, si pongono in una zona liminale. Se Hildegarda sta sulla “linea di confine che separa il margine dell’immagine dal margine della logica”[2], dove pensa per immagini e attraverso l’inconscio, intrecciando visione e scrittura, Jeanne Baret vive in un luogo liminale o, per dirla alla Foucault eterotopico, come la nave. E per poter realizzare questa impresa, ovvero la circumnavigazione del globo, è costretta a travestirsi da uomo, a celarsi per esprimersi. Di famiglia umile e praticamente analfabeta, la donna diviene, grazie alla sua capacità di osservazione, una grande esperta di botanica. Un’altra grande viaggiatrice, che ha illustrato 832 tavole di piante, di cui alcune specie furono disegnate per la prima volta, è Marianne North. La sua è stata definita “una vita fra viaggi e colori”. Una vita che è riuscita ad evitare quel “terribile esperimento che trasformava le donne in cameriere di alto livello”, come lei aveva definito il matrimonio. North non ha mai sradicato o isolato una pianta che è sempre inserita nel suo contesto. Nel paesaggio. Quel paesaggio così caro anche a Lucia e che ha sempre osservato da diversi punti di vista, fosse esso interiore o esteriore e ha poi riportato, con l’espressione più adatto al momento, adottando le modalità antitetiche della sintesi e dell’accumulazione stratificata. Infine, il quarto telo è dedicato a Elizabeth Blackwell, fra le prime donne a raggiungere la notorietà come illustratrice botanica, da non confondersi con la prima donna laureatasi in Medicina, che le è omonima. Rimasta sola, incinta, con il marito in prigione e senza un soldo, la Blackwell, che non sapeva nulla del mondo vegetale, si rende conto che sono proprio questi libri a mancare nel mercato librario. È così che inizia a studiarlo e a farsi aiutare sino a pubblicare A Curiuos Herbal, che ha da subito grande riscontro in ambito accademico. Dopo la lettura delle loro avventurose ed appassionate storie, Lucia ne ha creato una sintesi per immagini. Un ritratto che trova la forma di un fiore. Un fiore di nuova specie, da lei inventato come il nome che porta, che si unisce così alle visioni e alla concreta visionarietà di queste donne, esponendole in tutta la loro unicità e bellezza. Le propone come esempi a cui guardare ed ispirarsi, in tempi in cui, esplorare e andare in profondità, prendendoci tutto il tempo necessario, risulta difficilmente attuabile. Certo, possibile, ma è anche vero che le infinite possibilità di cui oggi disponiamo e la bulimia nel cercare di provarle tutte, ci conducono ad una circumnavigazione in superficie che prosciuga tutto il nostro tempo e spegne il nostro fuoco sacro.
Eva Comuzzi
[1] Alessandra Comneno, Custode del Fuoco Sacro. Lo sciamanesimo e l’energia femminile. Le donne medicina raccontano, Anima Edizioni, Milano, 2015.
[2] Teresa Lucente, La quadratura del cerchio. Incarnazione e libertà nel Liber Divinorum Operum di Ildegarda di Bingen, Effigi Edizioni, Arcidosso (GR), 2016.
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una vetrina non ti lascia mai indifferente
esempi a cui guardare ed ispirarsi, in tempi in cui, esplorare e andare in profondità
piante e fiori cuciti su tessuto